Un momento importante per il vicepresidente di Anpas, che ha voluto dare un suo contributo importante a Roma, durante la giornata “Prepararsi all’accoglienza” organizzata presso l’università di fama internazionale (Rovigo)
ROMA – “Sicuramente stiamo parlando di una nuova importante sfida, ma quello che è certo è che il terzo settore, il mondo del volontariato, i volontari di Anpas, dopo due anni di pandemia in cui hanno dovuto reinventarsi giorno dopo giorno per cercare soluzioni all’interno di una pandemia, arrivano perfettamente allenati e pronti ad affrontarla”. Parla così Lamberto Cavallari, vicepresidente Anpas durante l’incontro “Prepararsi all’accoglienza” dell’università di Tor Vergata, lo scorso 29 aprile parlando di accoglienza e di volontariato.
“Alzi la mano chi solo 3 anni fa pensava, anche solo possibile, che in un lasso di tempo cosi breve avremmo dovuto affrontare dopo una pandemia anche una guerra che attraversa l’Europa e sposta milioni di profughi in fuga.
Eppure il mondo del volontariato si sta dimostrando pronto e preparato, grazie ad una formazione che negli anni gli ha insegnato che non esiste sfida che non possa essere accettata ed affrontata”.
Proseguendo: “Abbiamo visto volontari sulle ambulanze soccorrere i malati di covid, senza paura; abbiamo visto gli stessi volontari partire per il confine ucraino a poche ore dall’inizio del conflitto per recuperare mamme e bambini; li abbiamo visti organizzare le colonne di aiuti; li stiamo vedendo adesso impegnati nell’accoglienza.
Sapevano come si facevano queste cose ? no, non esistevano manuali: quelli li stiamo scrivendo adesso, giorno dopo giorno, ma hanno capacità e formazione che permette loro di trovare in fretta soluzioni concrete che diano risposte ai bisogni”.
Aggiungendo poi: “Di questo dobbiamo essere fieri. Durante i giorni del lock down abbiamo trovato nei giovani dei validi supporti. Quegli stessi giovani che spesso critichiamo e che additiamo, in modo ingiusto, quali responsabili del peggioramento della società. Lo facciamo come noi stessi non fossimo mai stati giovani e come non avessimo mai sentito dai nostri nonni le stesse accuse rivolte a noi. I giovani faticano a stare nelle associazioni organizzate e nell’ ordinarietà dell’attività di tutti i giorni. Proprio perché sono giovani e questo è normale”.
Successivamente il vicepresidente Anpas ha specificato: “Ma molto spesso, i primi a sbagliare l’approccio siamo noi dirigenti associativi che vorremmo avere vicino i giovani, ma alle nostre regole, secondo il nostro modo di vedere le cose.
Non sappiamo appassionarli ed è evidente che senza passione e imponendogli regole che non sono le loro, tutto diventa più complicato. Eppure nei giorni del lock down i giovani a centinaia si sono presentati nelle associazione pronti a portare il loro contributo, il loro punto di vista e sono stati fondamentali in quel momento”.
Sottolineando in seguito: “I giovani ci sono nelle emergenze come una gigantesca riserva pronta ad entrare in campo quando loro lo ritengono opportuno. Io credo che i giovani saranno una parte importante della sfida dell’accoglienza per la freschezza delle loro idee e per la capacità di superare vecchi modelli e inventarne di nuovi.
La guerra in Europa ci ha atterrito tutti, e per alcuni giorni abbiamo fatto fatica a metabolizzare quello che stava succedendo. Come sempre accade nelle prime ore l’ondata di solidarietà è stata grande e ha seguito il modello classico che la vede via via scemare lasciando lo spazio a polemiche endemiche che si ripetono ciclicamente ad ogni emergenza.
Nelle prime ore le nonne, le mamme e i bambini erano nel cuore di tutti gli italiani, oggi a distanza di alcune settimane lo sono un po’ meno. I commenti che sentiamo oggi sono che “In fin dei conti forse non erano in una zona di guerra, oppure si ma questi avevano già deciso di venire in Europa, oppure la più classica; ci sono italiani che stanno peggio, aiutiamo prima loro. Queste sono le critiche più popolari e populiste”.
Proseguendo: “Un crescendo che aumenta nella popolazione e che finisce per coinvolgere anche i volontari che accolgono. L’accoglienza dei profughi ucraini, o almeno di buona parte di quelli arrivati nelle prime ore, passa per almeno tre livelli di difficoltà. Il primo, il più conosciuto, è la differenza culturale e del modo di vedere le cose. Su questo per anni la formazione ha lavorato e ci ha insegnato anche grazie ai mediatori culturali a capire come gestire le differenze.
Certo per un volontario non è sempre facile accettare gli stili di vita, né comprendere i comportamenti dell’immigrato. Ma è un problema che è sempre esistito su cui si è lavorato molto e oggi è gestibile. Il secondo riguarda l’età dei profughi che stanno arrivando, in buona parte giovani mamme e bambini che sono di generazioni diverse rispetto ai volontari che già faticano a capire i giovani italiani figuriamoci a capire giovani di culture diverse”.
Sottolineando poi: “La diversità rispetto alle altre immigrazioni e che li vediamo più simili a noi e ci aspettiamo comportamento similari ai nostri, dimenticandoci appunto la differenza di età ed il contesto culturale diverso da cui provengono. Anche su questo la formazione ci ha insegnato come gestire la cosa, ma soprattutto la vita quotidiana ci aiutano, anche se qualcuno continua a non riuscirci alimentando un eterno conflitto generazionale che va ben oltre la problematica dell’accoglienza.
Il terzo e più insidioso livello che apre un mondo nello schema mentale dell’accoglienza tradizionale è costituito dalle condizioni socioeconomiche di buona parte dei profughi. Il nostro Paese da un punto di vista ideologico è sempre pronto ad aiutare, ma tende ad andare in difficoltà nel momento in cui si accorge che la persona che sta aiutando non è il soggetto che ha idealizzato”.
Concludendo infine: “Questo è un problema quanto mai attuale, perché la prima ondata di questa immigrazione ha portato qui molte persone che dal punto di vista della situazione economica sono come noi o in alcuni casi vivono condizioni migliori meglio della nostra.
Sono persone che scappano da una guerra e non sono migranti economici. Persone con uno stile di vita e delle abitudini che tendono a preservare anche nel momento dell’emigrazione, magari ricorrendo a risorse proprie in aggiunta a quelle della accoglienza. Questo nel volontario che accoglie, ma anche nella popolazione, crea dei grossi problemi in quanto le persone che sto aiutando hanno più di me.
Lo abbiamo visto in passato, quando le immagini tv ci mostravano immigrati arrivare con smartphone e vestiti firmati. Chi di noi non ha sentito dire: “se hanno queste cose vuole dire che in fin dei conti non hanno poi tutto questo bisogno” o concetti simili. Qui si tratta di andare oltre al paradigma su cui si sono basati anni di carità, dove la carità è intesa come dare al bisognoso quanto noi stabiliamo necessiti e non quanto realmente necessiterebbe e possiamo dargli.
Qui cambia tutto: non si tratta più di dare in termini meramente economici quanto noi riteniamo sia necessario, ma di dare a queste persone l’opportunità di tornare a ad essere quello che erano.
Bene fa Angela Spinelli quanto parla di un progetto di vita magari momentaneo perché quella è la via. Stabilire le regole, anche i limiti economici in cui le due parti, chi aiuta e chi è aiutato, sviluppano questo progetto che da una dignità al profugo. Il volontario dovrà arrivare a non farsi domande del tipo: perché oggi io sono qui sacrificando il mio tempo per andare a raccogliere la spesa che poi devo dare ad una persone che poi la completerà con il proprio bancomat ?
Non dovrà più farsele perché il percorso di formazione sarà tale per cui prenderà atto di essere parte, azione di un progetto più ampio che si completerà con altre azioni oltre alla sua.
Che non si tratta più di aiutare un persona che ci deve essere riconoscente e grata per quello che facciamo per lei, che non deve comportarsi secondo le nostre aspettative perché diversamente perderà il nostro aiuto.
Queste domande i volontari non se le fanno quando vanno a soccorre una persona con l’ambulanza, non si chiedono se è ricco o povero, non si chiedono neppure se è un assassino. Gli prestano soccorso senza farsi domande perché sono parte di un sistema più ampio per il quale se la persona che hanno soccorso è un assassino verrà poi processato.
I volontari che presteranno assistenza dovranno arrivare li a fare la loro azione, senza focalizzare a chi è rivolta in quel momento, ma trovando gratificazione nell’azione che svolgono in un sistema ben più ampio.
Ora io ho estremizzato l’esempio dell’ambulanza dove si soccorre l’assassino, dovrebbe essere un caso che non si verifica o almeno ce lo arguiamo tutti, ma il concetto per cui deve diventare più importante l’azione che compio rispetto al soggetto per cui la faccio è la chiave di volta.
Per portare il volontario a questo livello di ragionamento dovremo lavorare e tanto a livello di formazione culturale dei nostri volontari: su questo ci saranno di grande aiuto i giovani che avendo menti fresche sapranno prima di altri entrare in queste logiche.
Questa è la grande sfida che ci attende e che io stesso affronto con serenità per la grande stima e per la grande fiducia che nutro nel mondo del terzo settore che ha dimostrato di sqpere trovare efficaci soluzioni a ogni tipo di problematica , e per quella che nutro nei confronti dei giovani in quanto portatori di novità e di evoluzione.
Permettetemi quindi di ringraziare i volontari e le volontarie di Anpas, tutti i volontari e le volontarie e tutti gli operatori e le operatrici degli enti del terzo settore e non che sono impegnati in azioni di accoglienza in queste ore: da chi si trova ad operare nei campi profughi di mezza Europa, a chi sta portando od organizzando gli aiuti, a chi sta gestendo l’accoglienza in Italia. Grazie per la meravigliosa pagina di solidarietà che state scrivendo che rende orgoglioso il nostro Paese, che spesso bistrattiamo, ma che nel momento del bisogno ha risorse che neppure noi conosciamo nella sua interezza”.